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Napoli 28 marzo del 1943 una data da ricordare: L’esplosione della nave Caterina Costa A cura di Anna Cozzolino

da Davide De Stefano
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Il 28 marzo del 1943 è un giorno che non può essere dimenticato, una delle pagine più dolorose della storia della nostra Napoli. E’ il giorno dell’esplosione della Caterina Costa.
Ancora oggi non sono chiare le cause che portarono allo scoppio della grande motonave da guerra, ormeggiata da qualche giorno nel porto, carica di materiale bellico destinato alle truppe italiane sul fronte africano: nelle prime ore del pomeriggio divampa un incendio, forse casuale, forse doloso. Un pericolo inizialmente sottovalutato, poi una situazione gestita male, gravi leggerezze, ritardi nei soccorsi, e totale incapacità nel dirigere le operazioni.
 La nave, una santabarbara galleggiante, resta lì, ancorata al porto, tra gli inutili tentativi di spegnere le fiamme: alle 17.39 l’incendio raggiunge la stiva numero due, quella degli esplosivi, e la Costa salta in aria.

Ecco la cronaca di Roberto Ciuni, giornalista de il Mattino di Napoli:
« Napoli si sveglia ai primi scoppi provocati dalla benzina che si sparge, ardendo, sull’acqua del porto. Buona parte dell’equipaggio si mette in salvo sulla banchina, a cominciare dal comandante della stessa nave, ma i soldati, addormentati sotto coperta, trovano le vie di fuga sbarrate dal fuoco: dei cento italiani alloggiati a poppa non si salva nessuno. Non si tratta di attacco aereo, quindi niente sirene d’allarme. I napoletani sentono le deflagrazioni, vedono pennacchi di fumo, odono le ambulanze che vanno avanti e indietro. Alla direzione dei Vigili del Fuoco l’allarme arriva dieci minuti dopo le due del pomeriggio: in banchina, l’ingegnere Tirone, dirigente dei VVFF capo delle operazioni di soccorso, trova il comandante della nave che lo mette in guardia: sulla «Caterina Costa» c’è un carico di bombe che può scoppiare da un momento all’altro, consiglia di affondarla. Di fronte al rischio, Tirone ritira la sua squadra impegnata a cercare di spegnere l’incendio. Alle 15 un colonnello della Capitaneria di Porto sostiene che non c’è pericolo. Un’ora dopo un maggiore della stessa Capitaneria di Porto informa che non è possibile affondare la nave dato che già tocca il fondo. Alle 17,39, al termine di una giornata dove si sono mescolate leggerezze inaudite da parte di tutti i dirigenti coinvolti, incapacità tecniche dei responsabili militari, ritardi nel chiedere soccorsi adeguati, la «Costa» salta in aria: le fiamme hanno raggiunto la stiva numero due, quella dell’esplosivo. La banchina sprofonda; un pezzo di nave piomba su due fabbricati al Ponte della Maddalena abbattendoli; la metà d’un carro armato cade sul tetto di un palazzo di Via Atri; i Magazzini Generali del porto prendono fuoco; alla Stazione Centrale le schegge appiccano incendi ai vagoni in sosta. Il Lavinaio, il Borgo Loreto, l’Officina del Gas, i Granili, la Caserma Bianchini, la Navalmeccanica, l’Agip: dovunque arrivano lamiere mortali. E dovunque, vetri rotti, porte e finestre sfondate, cornicioni sbriciolati dall’esplosione. Per spegnere l’incendio sul relitto i vigili dovranno lavorare fino all’indomani. Le vittime saranno 549; i feriti, oltre tremila. Tra questi il vice comandante della Capitaneria di Porto ripescato a mare. Se la «Costa» è la prima nave a saltare in aria senza intervento nemico, diverse altre sono state incendiate e affondate durante i bombardamenti, fin dal 20 febbraio, quando le Fortezze Volanti hanno centrato il piroscafo «Caserta». Altre ancora coleranno a fondo nei prossimi mesi. Alla fine le condizioni del porto saranno tali che gli Alleati entreranno in città portandosi un tecnico addestrato alla bonifica di moli, attracchi e bacini sconquassati dalla guerra: l’ingegnere inglese I.A.V. Morse in divisa di contrammiraglio. Sarà lui a far pulizia di relitti e macerie. »
Molti porteranno i segni di quella giornata per tutta la vita. Una tragedia che fermò il tempo, nel senso letterale del termine.

 

A ridosso di piazza Mercato sorge infatti la chiesa di Sant’Eligio, la più antica testimonianza angioina della città. All’interno dell’Arco, che collega il campanile della chiesa con l’edificio vicino, è incastonato il famoso Orologio Quattrocentesco, raffigurato in tanti dipinti. La zona, relativamente vicina al molo dell’esplosione, risulta ovviamente tra le più danneggiate: il quartiere è devastato dalla raffica di spezzoni incendiari e, nel momento esatto dello scoppio della nave, l’Orologio smette di funzionare. Per cinquant’anni l’Arco di Sant’Eligio, con le sue lancette ferme, ha voluto ricordare, a chiunque alzasse lo sguardo, quella ferita forse mai del tutto rimarginata. Solo nel 1993 l’Orologio, restaurato, è stato rimesso in funzione tornando a scandire il tempo della bella Napoli.

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