inaffidabili. Un motivo in più per guardarli con sospetto.
Non era così raro che qualcuno, appena ne aveva l’occasione, rivoltava la giacca contrassegnata e se la rinfilava, rientrando così nel gruppo degli ammessi.
Quando la situazione generale era poco chiara, non solo sotto l’aspetto sanitario, sull’abito veniva apposta la sigla SI che significava doversi sottoporre ad alcune domande da parte degli ispettori in una stanza dedicata. E qui, spesso per pura ingenuità, crollarono molte speranze o, quantomeno, nascevano delle difficoltà.
Tra le domande più insidiose per gli aspiranti americani ce ne erano due solo apparentemente semplici. La prima era: “Hai già un lavoro che ti aspetta?” e l’altra “Chi ti ha pagato il biglietto?'”. Rispondere con sincerità poteva significare tornare indietro e per molti poveri immigrati finì proprio così.
Un’altra circostanza particolare era quella delle ragazze sole. La legge americana non consentiva loro di raggiungere la terraferma senza un parente che le accompagnasse.
Quando dichiaravano che sarebbero state raggiunte dal fidanzato, erano obbligate ad attenderlo sull’isola, anche per giorni e giorni.
I medici di servizio controllavano ciascun emigrante: sulla loro schiena segnavano con un gesso la loro condizione di salute. PG per una donna incinta, K per ernia, X per problemi mentali – e così via.
Nel corso degli anni vennero aggiunte altre normative che restrinsero le possibilità di accesso negli USA, tra cui, nel 1917, quella di una prova di alfabetismo. In poche parole, dall’età di sedici anni in su bisognava saper leggere un brano di almeno 40 parole nella lingua madre.
Come la maggior parte degli emigrati Italiani , anche i napoletani si trovarono impreparati ad affrontare il nuovo ambiente e una lingua nuova e quindi incomprensibile, diventando così sempre più chiusi. L’impossibilità di comunicare con gli altri li costrinse anche a raggrupparsi fra loro fino a dare vita a dei ghetti le cui condizioni di vita sono difficilmente descrivibili. Molti si affidarono a connazionali senza scrupoli che specularono sulla loro pelle ora truffandoli vergognosamente, ora “affittandoli” a questa o quell’impresa edile per malpagati lavori di “picco e pala”.
Un altro grande problema era quello dell’abitazione e in tanti scelsero di stabilirsi nei decrepiti edifici di legno, abbandonati da tempo dai precedenti abitanti, che si allungavano a ridosso del ponte di Brooklyn.
Questo improvviso affollamento della zona fece naturalmente la fortuna dei padroni di case, ma trasformò quel quartiere in un formicaio dove la miseria, la delinquenza, l’ignoranza e la sporcizia erano gli elementi dominanti. In questo tipo di ambiente furono costretti a vivere quei napoletani che avevano tanto sognato di rifarsi una vita e di fare fortuna lontani dalla loro terra .
Un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni domenica si festeggiava qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti del sud italiano, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. I Napoletani , naturalmente, non potevano non festeggiare il loro amatissimo San Gennaro , una festa che ancora oggi si celebra negli Usa.
Questi ghetti rappresentarono subito un problema per la polizia americana. In questi luoghi, infatti, centinaia di malviventi mafiosi, approdati tranquillamente in America, trovarono subito il terreno adatto per trapiantarvi i loro illeciti sistemi. Incapace di comprendere la lingua e gli usi dei nuovi ospiti, la polizia americana si limitò da parte sua a circondare simbolicamente i ghetti con un cordone sanitario, lasciando praticamente liberi i pochi malviventi italiani di taglieggiare la moltitudine onesta e pacifica dei loro connazionali. Insomma: che gli italiani se la sbrigassero pure fra di loro. L’importante era impedire che i loro sistemi sconfinassero nelle zone più civili della città.